Iolanda Gaeta

mercoledì 23 agosto 2017

 Disturbi Alimentari

In infanzia ed adolescenza l'espressione del disagio emotivo e relazionale, così come la risposta a fattori stressanti di varia natura, passano frequentemente attraverso lo sviluppo di una sintomatologia incentrata sul comportamento alimentare o, più in generale, su espressioni somatiche (dolori addominali o epigastrici, disturbi digestivi, rifiuto del cibo) di disagio, spesso fin dalla prima infanzia.
Questa sintomatologia che si esprime attraverso il corpo ed il comportamento del bambino, riguarda e coinvolge in realtà la relazione con il caregiver e con le figure di riferimento, e può rappresentare un primo segno di una “cattiva” o difficile sintonizzazione e reciprocità all ’interno della diade, fin dai primi momenti di interazione (Cammar ella et al., 2001).
Numerosi studi hanno cercato nel tempo di valutare la relazione madre bambino sia in soggetti “sani”, che in soggetti affetti da disturbi psichici di varia natura, osservando come la depressione dell’umore materna costituisca un pesante filtro per la codifica reciproca dei bisogni e delle emozioni (Tronick, Weinberg, 1997). Studi più recenti si sono concentrati più specificamente sul disturbo del comportamento alimentare nelle madri, valutando le eventuali ripercussioni sul rapporto madre figlio e sul pattern alimentare del bambino o dell’adolescente (Lacey e Smith, 1987; Patel et al, 2002).
Allo stesso modo sono in questi anni in studio le “credenze” ed i valori su peso, corpo e dieta presenti nelle famiglie di bambini con sintomi alimentari rispetto ai controlli, evidenziando come le convinzioni sia esplicite che implicite dei genitori su tali aspetti siano in grado di condizionare intensamente le convinzioni ed i comportamenti dei figli sul proprio corpo e sui propri bisogni alimentari (Ravaldi et al, 2005b).
L’alimentazione e la corporeità assumono un significativo valore transgenerazionale (Hill eFranklin, 1998), rappresentando il primo tramite di comunicazione e di “accudimento” caregiver – neonato, ed uno dei primi campi possibili di “ contrattazione” all’interno della diade.
I genitori, la famiglia allargata e la perpetrazione dei cosiddetti miti familiari, contribuiscono complessivamente a definire le credenze, le norme e dunque i comportamenti riguardo al corpo e all’alimentazione che vengono poi appresi dal bambino.
Approcci teorici differenti (psicoterapia sistemica e familiare, psicoterapia psicoanalitica, psicoterapie cognitive e cognitivo comportamentali, studi psicopatologici generali) hanno prodotto una grande quantità di dati, relativi al funzionamento delle “famiglie anoressiche e bulimiche, all’attaccamento nel bambino obeso o con disturbi alimentari, alla relazione madre–bambino in corso di DCA, o alla funzione del sintomo come tentativo di proteggersi rispetto ad un malfunzionamento familiare e ad una difficile autonomizzazione ed indipendenza evolutiva (Bruch, 1983; Minuchin et al.1978).
Molto scarsi sono però i dati che valutino cosa accade alle persone con storia attuale o pregressa di DCA durante l’attesa di un figlio e soprattutto dopo la sua nascita; gli studi disponibili si concentrano soprattutto su dati antropometrici e psicometrici, senza prendere in considerazione la diade e le diadi,  confrontandole prospetticamente durante le tappe evolutive del bambino.
A questo proposito è importante sottolineare che il numero di soggetti che guariscono da un DCA è piuttosto basso, che nei due terzi dei casi si va incontro ad una parziale remissione e che circa il 20% cronicizza (Steinhausen, 2002).
Si potrebbe quindi ipotizzare che la maggior parte delle donne con pregresso o attuale DCA che si appresti ad iniziare e portare avanti una gravidanza, presenti in realtà i cosiddetti “sintomi residui”, di per sé insufficienti per fare diagnosi ma spesso strutturati pervasivamente nel vissuto e nell’agito di queste persone, come veri e propri tratti personologici (il perfezionismo, il controllo, la permeabilità dell’immagine corporea a modifiche minime e situazioni stressanti...).
Da ciò può dipendere il frequente riattivarsi durante la gravidanza e l’allattamento di sintomi legati al controllo alimentare e dell’immagine corporea, che provocano frequenti ricadute nei meccanismi di compenso, nella restrizione e, ancora più spesso, nello strenuo controllo del peso, volto a limitare le modificazioni corporee al minimo possibile (Rocco etal., 2005).
Recenti studi hanno valutato che la percezione della propria immagine corporea come piacevole o sgradevole nel post-partum è correlata al tono dell’umore e alla durata dell’allattamento; molte donne con disturbo alimentare iniziano con difficoltà il percorso del post-partum, perché frequentemente manifestano evidenti difficoltà nell’interpretazione dei bisogni alimentari del neonato, tendendo ad essere o troppo rigide col numero delle poppate o estremamente lasse. Anche l’allattamento esclusivo può mettere in difficoltà una madre con sintomi alimentari, dal momento che i dubbi sulla scarsa capacità nutritiva del proprio latte alimentano i dubbi sulla codifica del pianto del neonato, che viene frequentemente scambiato per “fame” e dunque utilizzato come conferma della propria inadeguatezza.
In altri casi l’impossibilità di controllare le proprie forme corporee attraverso una restrizione calorica incompatibile con l’allattamento fa sì che le madri escludano l’allattamento a priori.
Negli ultimi venti anni numerosi studi hanno esaminato le famiglie con madri affette da disturbi alimentari, specialmente allo scopo di valutare il rischio di trasmissione intergenerazionale dei DCA da madre a figlia (Whelan & Cooper, 2000; Patel et al., 2002).
In particolare, al momento della nascita, e nei primi mesi di vita i figli di donne anoressiche o bulimiche tendono ad avere un peso ed un’altezza inferiori alla media, probabilmente a causa dei problemi alimentari durante la gravidanza (Conti et al., 1998; Waugh & Bulik,1999) dato che le madri con DCA sembrano avere una minor tendenza ad allattare al seno il figlio, a nutrirlo regolarmente, a cucinare o consumare i pasti con lui.
D’altra parte queste madri hanno anche una tendenza più spiccata ad essere intrusive al momento dei pasti, ad usare il cibo a scopi non propriamente alimentari, ed esprimere commenti negativi sui loro figli durante i pasti stessi.
 L’accudimento nutrizionale del bambino durante i pasti risulta emotivamente e cognitivamente difficile, perché il momento del pasto, per i significati che assume riguardo all’accudimento, all’interpretazione dei bisogni, allo scambio reciproco, diviene una considerevole fonte di stress emotivo per la madre, che può dunque intensificare il controllo o negarlo del tutto, (ipo o ipernutrendo il figlio, delegando ad altri), o vivere emozioni contrastanti e caotiche, estremamente confusive per il bambino.
Tali problemi sono correlati con lo sviluppo di disturbi alimentari ed atteggiamento di rifiuto nei confronti del cibo da parte del figlio.
Le madri con DCA descrivono il pattern nutrizionale dei loro figli come più problematico rispetto alle mamme di controllo ed esprimono inoltre una maggiore preoccupazione che i figli diventino grassi, attuando tutta una serie di strategie preventive, eliminando ad esempio dalla dieta dei figli cibi contenenti carboidrati o zuccheri semplici, o limitando seriamente la qualità dei cibi permessi (Lacey & Smith, 1987; Whitehouse & Harris, 1998).
È stata inoltre descritta la tendenza ad ipoalimentare volontariamente i propri figli (Russelet al., 1998).
Altri studi basati sull’osservazione del pasto dei bambini hanno sottolineato una estrema povertà nel numero di commenti positivi sul cibo rispetto ai controlli (Waugh & Bulik 1999).
Come abbiamo detto il legame con le figure d’accudimento permette al bambino di esplorare e fare esperienze riconducibili sia alle sensazioni di fame e sazietà, sia alla piacevolezza insita nel momento dell’alimentazione; la carenza di commenti positivi potrebbe avere un impatto negativo sul bambino, presentando il cibo come elemento di scarso valore (Bruch, 1977).
Infine, studi eseguiti sui genitori di bambini con atteggiamenti di rifiuto nei confronti del cibo o con deficit nutrizionali di crescita riportano un’elevata prevalenza di disturbi del comportamento alimentare, sia attuale (Stein & Fairburn, 1989; McCann et al., 1994; Stein et al., 1994; Stein et al., 1995; Whelan & Cooper, 2000), che pregressa (Lindberg et al.,1991), suggerendo che i DCA nei bambini sono specificamente associati ad abitudini e comportamenti alimentari disturbati nei familiari.
Concludendo, i dati presenti in letteratura concordano nel sottolineare da un lato la complessità della relazione madre bambino in presenza di psicopatologia nella coppia genitoriale, dall’altro i rischi fetali e neonatali legati alla presenza di sintomi residui di DCA nella madre (nascita pretermine, compromissione dello sviluppo e della crescita fetale, del neonato e del lattante).
Le problematiche fisiche neonatali sono spesso le prime ad essere messe in evidenza dai clinici, che tendono invece a sottovalutare o a lasciare inesplorati gli aspetti relativi alla relazione madre bambino che nei soggetti con DCA può essere fortemente compromessa.
Una relazione diadica problematica può generare problemi nell’attaccamento e nei processi evolutivi del bambino, creando a sua volta i presupposti per lo sviluppo di un disturbo del comportamento alimentare in età evolutiva.
a cura di Claudia Ravaldi, psichiatra psicoterapeuta

Il gioco simbolico in terapia
Il gioco simbolico si manifesta nel bambino in una fase evolutiva che comincia dai 2 ai 7 anni (definita da Piaget fase del Pensiero Preoperatorio)
In questo periodo i bambini cominciano ad adoperare il pensiero simbolico in quanto acquisiscono la capacità rappresentativa, diventano capaci di rappresentarsi mentalmente cose, oggetti, situazioni, persone indipendentemente dalla loro presenza.
Prima dei 24 mesi i bambini sono già in grado di utilizzare gli oggetti attribuendoloro altri significati, ma è solo verso i 3 anni e mezzo che il bambino riesce ad impersonare “l’altro”; più avanti questa abilità si affinerà e fino a che sarà in grado di imitare gli adulti, utilizzando anche travestimenti e/o altri oggetti, riproponendo spesso gli stessi atteggiamenti e comportamenti che vede usualmente nel suo ambiente famigliare e/o scolastico.
È questo il periodo che possiamo definire “animismo infantile” attraverso il quale il bambino è in grado di animare gli oggetti utilizzando la sua immaginazione e in alcuni casi supplendo all'assenza degli oggetti stessi, trasformandoli in ciò che il bambino desidera in quel momento rappresentare.


La drammatizzazione, o gioco simbolico, si basa sull'immaginazione del bambino: si declina attraverso il gioco imitativo e la simulazione di ruolo; diventa per il bambino un mezzo di espressione e di comunicazione, uno strumento che favorisce ed incentiva le relazioni tra i bimbi, ma anche la relazione “uno a uno” che può esplicarsi, in ambito clinico, nella relazione terapeutica.
Dal punto di vista della socializzazione, la drammatizzazione permette un arricchimento della comunicazione tra i bambini e sviluppa la condivisione di idee ed emozioni nel realizzare e rappresentare la storia.
Nella relazione individuale, ad esempio con lo psicologo in seduta, la drammatizzazione ha il compito di suscitare sì l'immaginazione e la riflessione, ma a livello terapeutico, ha l’importante compito di facilitare l'espressione di sé e di favorire la liberazione di conflitti interiori. Gli obiettivi cui si mira variano a seconda dell'età dei bambini.

Lo psicologo organizzerà il “setting” in modo tale che si trasformi in un luogo “sicuro” all’interno del quale il bambino potrà esprimere i suoi reali bisogni senza paura di essere giudicato, ma accettato per quello che egli è. I pupazzi, e i vari giochi presenti nello studio e utilizzati dal bambino insieme allo psicologo, assumono la qualità particolare di animarsi, di rispondere, di muoversi, continuando comunque ad essere finti e quindi controllabili dal bambino; essi sono contemporaneamente reali e fantastici e i bambini possono calibrare l’esperienza e controllarla.
Per rendere il “setting sicuro” è necessario strutturarlo, renderlo prevedibile anche attraverso l'istituzione di riti e routine che si consolideranno in seduta,settimana dopo settimana. Si cercherà di incrementare le competenze del bambino in più Domini: rafforzamento del sé, aumento della capacità di auto- regolazione e dell’attenzione, degli affetti e del comportamento. Si cercherà di creare occasioni in cui si possa sperimentare, in modo da aiutare il bambino ad identificarsi come competente piuttosto che deficitario.
In sintesi l'obiettivo è quello di potenziare le risorse cognitive, emotive, fisiche del minore attraverso il gioco e il corpo .
Per raggiungere l’obiettivo descritto, cioè incrementare le competenze del bambino in più Domini oltre alla drammatizzazione si potranno usare diverse tecniche come: l’uso della Narrativa Psicologicamente Orientata, la biblioterapia, la narrazione di storie inventate insieme al bambino con la possibilità di rappresentarle graficamente utilizzando diverse tecniche pittoriche, ecc.
In sintesi l’intervento terapeutico incentrato sul “gioco simbolico” e la “drammatizzazione” si propone dunque di:
  • permettere al bambino di esprimere e imparare a padroneggiare sentimenti, paure, emozioni, attraverso il corpo e/o attraverso l'uso di oggetti
  • liberare conflitti inconsci
  • superare paure e allargare la fiducia in sè e negli altri
  • soddisfare il bisogno di movimento e di creatività attraverso l'uso di linguaggi diversi
  • stimolare l’immaginazione del bambino
  • favorire la comunicazione
  • favorire l'imitazione di diversi modelli di comportamento.                                                                                                                                               
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Dott.ssa Iolanda Gaeta    www.iolandagaetapsicologa.it